AVVOCATO MIO! MA COSA MI COMBINA?
In questa rubrica, con l’aiuto dell’avvocato Simone Labonia, trattiamo sempre argomenti che, in un modo o nell’altro, abbiano a che fare col mondo della Giustizia: con tutti gli annessi e connessi.
Oggi ci addentriamo in una dissertazione, avvalorata ovviamente da dati ufficiali, che dimostra come, ancora una volta, il rapporto di “odio/amore” che intercorre tra avvocato ed assistito, spesso prende vie tortuose, sia per colpa dell’uno che dell’altro.
In questo caso specifico, il “cattivo” è rappresentato proprio dal legale il quale, volendo rispolverare e ridare vita alla “manzoniana” figura dell’azzeccagarbugli, ha messo in atto un comportamento professionale non certo da imitare, e che è stato giustamente punito e sanzionato dal Consiglio Nazionale Forense (sentenza n.202 pubblicata il 30/11/2023).
In vero, più che cattivo, il nostro avvocato era leggermente assenteista e non prendeva in giusta attenzione il suo delicatissimo ruolo, posto a baluardo e salvaguardia dei diritti imprescindibili di chi ha legittime aspettative dal mondo della Giustizia.
La cosa che più colpisce, nella trattazione della vicenda, non è tanto l’inadempimento al mandato assunto, (di per se gravissimo), quanto le mendaci e false rassicurazioni date al cliente sull’andamento della “fantomatica” causa.
La sentenza ha precisato che si deve considerare deontologicamente rilevante, sia l’inadempimento del mandato (art.26 CDF), che la condotta in violazione dei doveri di probità, dignità e decoro della toga.
Il nostro “evanescente difensore”, dopo aver accettato incarichi ed aver ricevuto somme, quali anticipi sulle competenze, ha in più di un’occasione trascurato di dar seguito al suo ufficio, fornendo agli assistiti che chiedevano giuste informazioni, false indicazioni sullo stato dei procedimenti.
“Stia tranquillo: con me è in una botte di ferro”: era la frase ricorrente per tranquillizzare i clienti.
Gli indici di commisurazione della pena, contenuti nell’art.21 CDF, prevedono la sospensione dell’attività professionale fino ad 1 anno, nella forma aggravata che contempla un comportamento reiterato nel tempo e pressoché seriale.
Il professionista ha anche presentato ricorso al provvedimento disciplinare ma, dagli accertamenti, è scaturito che nella famosa “botte di ferro“, che doveva proteggere i suoi patrocinati, spesso non c’era inserita neppure l’iscrizione al ruolo, per la causa di cui si doveva interessare.
Ovviamente riportiamo questo caso per sottolineare come, il comportamento di una “pecora nera”, non possa inficiare la continua è solerte attività di migliaia di professionisti che, quotidianamente, mettono in campo la loro attenzione e preparazione, a servizio di chi loro si affida.